Attrice. Perchè?
 
 

Perché a 4 anni, nel Duomo di Trento, ero convinta che tutti guardassero me, quando camminavo lungo la navata col mio vestitino di velluto blu e il colletto di coniglio bianco. Mi sentivo una regina. E mi atteggiavo di conseguenza.Anna a 1 anno

Perché a 6 anni, quando mia nonna mi portava al Gran Caffè di Gorizia a bere una cioccolata, mi sedevo sullo sgabello liberty di velluto rosso e mettevo in mostra le gambe nude. Poco poco. Quel tanto perché la gente le notasse.

Perché a 12 anni, avendo assistito a una recita scolastica (una cosa pietosa, suppongo), scappai via con l’animo in tumulto e singhiozzai per tutta la strada fino a casa. Era stata un’“illuminazione”, un fulmine, uno choc irrazionale e sconvolgente. Il presagio di una vocazione, forse.

Perché attrice?  Perché sono un mostro.

 
     
 
Ritratto di ragazza
 
 

“La vedi quella bambina lì? L’Annamaria? Si dà le arie!...”

Si spingevano col gomito e ammiccavano di sottecchi, con lo sguardo crudele, meschino, totalmente privo di pietà che solo i bambini possiedono. Avevano 4 o 5 anni.

Anna a 4 anniIo, cioè Annamaria, altrettanti, ed eravamo all’asilo, a Gorizia.
Più tardi, alle elementari, le suore dicevano lo stesso. Suor Dorina, pallida, levigata, perfida. Lasciava colare su di me dall’angolo dell’occhio un viscido rivolo di sospetto.  Una volta mi calunniò gravemente, attribuendomi, in perfetta malafede, una marachella che lei sapeva non esser stata commessa da me. Si vendicava.”Vede, signora,” disse a mia madre “ forse la bambina non è cattiva, ma si da certe arie!...”

Questa frase mi ha perseguitato da quando ho memoria. Ogni tanto me la ritrovo fra i piedi anche ora. Ma adesso non ne soffro più. Ho capito da dove nasce. Adesso potrei perfino esserne lusingata. Sì, perché si tratta di una patente di “diversità”.

Quella “diversità” che imbarazzava i miei compagni d’ asilo e le suore; la stessa che quando ero ragazzina metteva a disagio gli ospiti piccolo borghesi delle pensioncine di Rimini e di Abbazia dove andavamo a villeggiare. La sera si riunivano intorno a mia madre che “teneva circolo” negli squallidi giardinetti illuminati da lampadine multicolori che pendevano incongrue da oleandri polverosi e dolciastri.

 
     
 
Misfit Girl
 
 

Io sedevo nell’ ombra e desideravo morire.

Si preoccupavano per me, sempre con una punta di sospetto: ”Ma cos’ha, quella ragazza? Non parla mai…Per me è un po’ anemica…Ha provato, signora, a darle del fegato crudo? Macchè fegato Ci vogliono le coccie d’ uovo tritate. Miracoli! Fanno miracoli! Ma lo sa che mia nipote…” Bla-bla-bla.

All’ idea del fegato crudo il mio malessere esistenziale diventava vera e propria nausea fisica. Correvo in camera a vomitare nel lavandino.

Anna bambinaNo, non mi davo delle arie. (E come avrei potuto? Grondavo auto-denigrazione, timidezza, sensi di colpa, frustrazioni, depressione, pessimismo). Ero una classica “misfit”. Ma priva, biologicamente, geneticamente forse, del compiacimento che spesso accompagna la coscienza di essere tale.
E allora perché quell’accusa?
Perché avevo…”personalità” (non so trovare una parola migliore, anche se questa è antiquata e insoddisfacente); perché, in un mio strano modo, ero bella, (ma allora non lo sapevo e, anche dopo, ho sempre coltivato tortuosi e circostanziati complessi sul mio aspetto fisico); perché avevo “grinta”. Questo sì.

Questa è una qualità che sapevo di possedere e me ne servivo per tenere la testa fuori dall’ acqua, per sopravvivere.

 
     
 
Lo sport e il canto
 
 

Ero bravissima negli sport. Atletica, nuoto, sci. A me sarebbe piaciuta l’ equitazione e il tennis, ma era roba da ricchi, a quel tempo; non era per noi.

Mio padre (benché visceralmente anti-fascista) doveva piegarsi a sfruttare le istituzioni giovanili del regime – la GIL (Gioventù Italiana Littorio) – e con loro andavo a sciare, vinsi gare di discesa libera e slalom, gare di nuoto; fui perfino “azzurra”, fra le Juniores, di pattinaggio artistico su ghiaccio. Ricordo quel periodo come una nebbia. Mi stancavo come una bestia, avevo il fiato corto e un giorno ebbi una specie di collasso. Mi scoprirono uno sfiancamento cardiaco piuttosto grave. Dovetti abbandonare completamente l’attività sportiva.

Non me la presi molto; in fondo ero stanca di primeggiare  in attività verso le quali ero sì fisicamente portata, ma che soddisfacevano una parte assai esteriore di me.

Anche per mio padre fu un sollievo. Non amava vedermi imbrancata nella “gioventù del regime”. Vi si era adattato per ragioni economiche. Mio padre era ingegnere, di Trento, dove anch’io sono nata. Aveva fatto la guerra 15-18 accanto a Cesare Battisti, fuggendo con lui sotto falso nome e rischiando la forca. Con l’ avvento del fascismo, che lui esecrò fin dal primo giorno, rimpianse i tempi dell’ amministrazione austro-ungarica che aveva combattuto come irredento, ma che ora ricordava liberale, illuminata, civile, colta e, soprattutto, laica.

Anna si tuffa nell'IsonzoRicordo che nel ’35, dopo la guerra d’ Etiopia, quando tutti si erano ringalluzziti con l’ Impero, profetizzava amaramente catastrofi a breve scadenza.  “Disfattista!” gli diceva mia madre. Lui, di notte, cercava di captare sulla radio, un vecchio cassone che si chiamava “Coribante”, radio Mosca, per sentire l’Internazionale. ”Bolscevico!”, gli gridava mia madre. ”Quel bel Paese dove ci sono gli abortori di Stato!” aggiungeva inorridita. Lei di aborti ne aveva fatti parecchi, ma nella sua testa, chissà perché, i suoi non contavano. Forse perché non erano “di Stato”.

Ricordo che un giorno, ero piccolissima, saltavo alla corda nel cortile urlando a squarciagola, come fanno i bambini, un motivo che avevo sentito in casa. Era l’Internazionale Ascolta l'Internazionale!! Un altro urlo, di mia madre al balcone, mi fece smettere.  Sul momento non capii niente, ma il mio antifascismo personale data da quel giorno. A sette anni inventai una filastrocca, che andavo canticchiando nei miei rari momenti di buonumore. Le parole erano: “Io sono Sacripante – dal guardo fiero e  truce- somiglio al nostro Duce – Benito Mussolin!”    Mussolin, senza la i, per rispetto della metrica.

 
     
 
Primi amori
 
 

L’interruzione delle mie attività sportive coincise con l’ inizio dei miei interessi intellettuali.

A scuola andavo così così. Mi arrangiavo. Abitavo a Roma, ora, e frequentavo il Mamiani. Avevo insegnanti molto mediocri, tranne due: il professore di storia dell’ arte e quello di filosofia.

Mi innamorai di queste due materie (le uniche che abbia studiato un po’ a fondo) e anche dei due professori. A quel tempo mi innamorai anche, ma sul serio, da piangerci la notte, di Dostoievskji, di Beethoven, di Herbert von Karajan, di Fred Astaire e di Katherine Hepburn. Si, perché avevo anche scoperto la musica e il cinema.

Anna a 15 anniAndavo ai  concerti all’Adriano, lire tre, in loggione; e ai cinemini di periferia, due film con una lira. Guadagnai i miei primi soldi dando ripetizioni di filosofia, cioè rispiattellando pari pari le lezioni del mio amato professor Giafaglione, alla figlia cretina  di un’ amica di mia madre. Col mio primo “stipendio” mi comprai un twin-set di golfini grigi da Shostal e l’Allegretto Ascolta l'Allegretto! della Settima di Beethoven. A 78 giri occupava quattro facciate. Mi ci vollero anni per avere la sinfonia completa.

Non avevo guida, in questi miei primi anni, nello sconfinato, ignoto, appassionante universo della cultura. Andavo alla cieca, per istinto, scegliendo, scartando, annusando qua e là come un cane da tartufi. Mi sentivo, ed ero, molto sola.

I miei non potevano far molto oltre che rallegrarsi di certi miei nuovi interessi culturali. Mia madre era ferma a Guido da Verona, Sem Benelli e D’Annunzio. Mio padre rileggeva in continuazione, anno dopo anno, KIM di Rudyard Kipling e i romanzi di Woodhouse e di Jerome K. Jerome. Questo suo amore per gli umoristi inglesi è sempre stato un mistero per me. Ma forse no. Forse tentava  di compensare in qualche modo la sua cronica depressione e l’atmosfera decisamente drammatica che mia madre portava in ogni suo rapporto. Comunque mi regalò, per i miei 16 anni l’ESTETICA di Benedetto Croce, in una bella rilegatura azzurra, col dorso di pergamena.

 
     
 
La signorina Doolittle
 
 

Eliza Doolittle e il suo Pigmalione.

A 15, 16 anni lo cercavo ardentemente il mio Pigmalione. E anche dopo l’ho sempre inseguito. Forse per questo ho spesso avuto vicino uomini importanti .  Importanti non per la ricchezza (per lo più erano poveri in canna come me, né per il potere, né per una particolare avvenenza. Ma erano, questo sì, degli intellettuali. Qualche volta degli artisti. Ho sempre avuto bisogno di una guida.

A 16 anni una guida importante la trovai. Si chiamava Muzio Mazzocchi Alemanni. Nome di antica nobiltà umbra, erano conti, mi pare. Lui frequentava il primo anno di Lettere all’Università, io la seconda liceo al Mamiani.  Muzio era alto, magrissimo, le spalle un po’ curve, le guance incavate, bellissimi occhi verdi sempre un po’ arrossati, il mento aguzzo, il profilo da medaglia di un principe del Rinascimento.

Era mostruosamente intelligente e di raffinatissima e aggiornatissima cultura. Era abbonato a Solaria e a Corrente. Le critiche ermetiche di Carlo Bo per lui non avevano misteri. S’intendeva di musica, di pittura e soprattutto di poesia. (E’ diventato più tardi un esperto di G.G.Belli, ha scritto molti libri su di lui, e ultimamente ha ricevuto un premio prestigioso per i suoi studi sul poeta romano).

Mi fece conoscere Eliot, Campana, Montale, Stravinskij, Louis Armstrong, Malipiero, John Donne, Braque, i Preraffaelliti, Bruno Barilli, Ungaretti, i Concerti Brandeburghesi….cito alla rinfusa, così come alla rinfusa io andavo spiluzzicando qua e là in questi mondi sconosciuti senza avere il tempo di approfondire. Capivo la metà di quello che leggevo o ascoltavo. l’altra metà l’assorbivo irrazionalmente, per istinto; prendevo anche molte cantonate, ma insensibilmente andavo formandomi un gusto.

Quando non ascoltavamo musica o leggevamo insieme poesia si peregrinava per Roma. Camminavamo per ore ed ore, senza fermarci mai, senza sederci mai, senza mai entrare in un caffè, senza mai prendere un tram. E’ vero che fra tutti e due non avevamo letteralmente una lira, ma mi sembra così strano, visto da ora, quel nostro astratto vagabondare. Ci muovevamo in un’atmosfera allusiva, metaforica, raggelata e incandescente, dove non c’era posto per bisogni comuni, per parole quotidiane. Io sarei morta, piuttosto che dire: sono stanca, ho freddo, mi fa male un piede, devo andare in bagno. Ma non ne soffrivo, mi andava bene così. Mi andava molto bene così.

 
     
 
Impronte
 
 

A 16 anni ebbi due incontri fondamentali: Anton Cecov e i De Filippo.

Zio Vania mi stravolse. Trovare li, scritte su una pagina, nella sublime sintesi dell’arte, le mie malinconie, le mie impotenze, le mie lagrime notturne; e le mie speranze disperate, le improvvise gaiezze, le ribellioni abortite, la stanchezza; e la volontà, malgrado tutto, di vivere e di affermare la mia esistenza! Che incontro sconvolgente!

Cecov agì da catalizzatore delle mie ambizioni ancora informi, del mio straziante bisogno di esprimermi. Diede corpo e parola armoniosi all’inarticolato mugolìo che mi dissonava dentro: decise della mia vita. Avrei fatto del teatro. Compresi che recitare era per me l’unico modo – come dice Eduardo – per vivere sul palcoscenico la vita vera, quella che gli altri, nella vita, recitano malamente.

Eduardo De FilippoEduardo, appunto. Mia madre era stata amica d’infanzia dei tre fratelli. L’amicizia non si era dissolta con gli anni. Nel 1939, l’anno di cui sto parlando, i tre De Filippo erano già gli attori e autori affermati le cui stagioni al Teatro Quirino di Roma significavano una serie di tutto esaurito.
Titina era ospite in casa nostra. Non dimenticherò mai la sua tenerezza verso di me, la sua arguzia venata di malinconia, quel suo comprendere tutto con un pudico riserbo così poco napoletano, quella sua profonda indulgenza che si travestiva da pigrizia ma che era, lo capii più tardi, autentica saggezza. E che grande, grandissima attrice. Mai più, nessuna, né in Italia, né all’estero, mi ha dato le emozione che lei suscitava con una parsimonia e insieme una genialità creativa che non ho mai più incontrato.

Di giorno talvolta mi portava con se a Cinecittà dove girava con Eduardo “Ma l’amor mio non muore” che segnò il debutto di Alida Valli. Come era bella Alida! Aveva pochissimi anni più di me, ma mi appariva irraggiungibile e mitica, come una dea. Alida era, naturaliter, una star. La guardavo con ammirazione distaccata, scevra  d’invidia. Io non volevo essere una star. Volevo essere un’attrice.

Peppino De FilippoQuasi tutte le sere ero fra le quinte del Quirino o in platea, seduta sui gradini ricoperti di moquette verde. A volte, Peppino o Eduardo inventavano delle nuove gags per me, ammiccando nella mia direzione, e io ne ero deliziata, ridevo fino alle lagrime.

Era un riso importante, liberatore, in cui si convogliavano, al di là della consapevolezza, aspirazioni, speranze, sensualità, ricchezza nel dare e nel ricevere, complicità, felicità del rapporto. Da allora le mie risate vere, non il sorriso di simpatia o il risolino di convenienza, ma le vere risate che salgono su dal profondo, sono sempre state come quelle, intrise di lagrime.

Negli intervalli ero sempre su nei loro camerini. Doveva essere una bella seccatura, per loro, quella ragazza ardente e timida che se li covava con gli occhi. Ebbene, mai che mi abbiano fatto sentire un’intrusa o un’ospite indesiderata.
  
Quando partirono da Roma scrissi ad Eduardo un tenero biglietto di gratitudine. Mi rispose subito. Scriveva ( cito le sue parole a memoria dopo tanti anni!) : “Sono giunte le tue parole all’isola della mia vita. A guisa di piccolo drappo bianco agito in aria un po’ di fantasia, rimasuglio d’infanzia, a segnalarti gioia di naufrago ritrovato.”

Più tardi  Peppino scrisse su “Il Messaggero” nel 1958.

 
     
 
Voglio fare l'attrice!
 
 

Non ne avevo mai parlato con nessuno.

Mi tenevo dentro stretto stretto il mio segreto come un rospo poetico, una febbre felice, un tumore gioioso. Mi accorgo di avere scelto immagini macabre. Ma era davvero come una singolare malattia quella che mi sentivo addosso; niente di romantico, di aureolato, di vocazionale. Era una presenza concreta che sembrava essersi abbarbicata alle radici fisiche del mio essere. Ma forse le vocazioni autentiche sono proprio così.

Mia madreDovevo parlarne con i miei, ma non trovavo il coraggio di affrontare l’argomento. Aggirai l’ostacolo in modo curioso. Un giorno entrai in una specie di negozietto dall’ aria vagamente equivoca vicino a Piazza San Silvestro. Per poche lire si poteva incidere la propria voce su un piccolo disco che ti consegnavano subito. Sotto gli sguardi esterrefatti dei due commessi, abituati evidentemente a exploit di tutt’altro genere, incisi a memoria il finale di Zio Vania e una lunga battuta dell’Ivanov, sempre di Cecov.  L’incisione era approssimativa, un po’ frusciante, ma passabile. A casa dissi a mio padre e a mia madre: “ Vediamo se riconoscete questa voce ” e misi su il disco.Mia madre disse subito “Ma questa è Tatiana Pavlova! Ah che attrice straordinaria! Me la ricordo in Mirra Efros. Al primo atto era alta, imponente. All’ultimo, quando resta sola, abbandonata da tutti, diventava piccola così!…” e con la mano indicava un’ altezza  a pochi palmi da terra. Io conoscevo l’aneddoto a memoria, l’avevo sentito decine di volte perché faceva parte del  “repertorio” di mia madre. “Ma no, su, ascolta bene” dissi con una certa insofferenza.” Ti dico che è la Pavlova!” Insisteva lei. (Mio padre stava zitto e secondo me aveva mangiato la foglia.) “E’ proprio la Pavlova! Ma che brava! Che brava!” ripeteva tutta infervorata.

“E allora ti dirò che non è la Pavlova! Sono io! E voglio fare l’ attrice!” gridai tutto d’un fiato.

Silenzio. Stupore, sbigottimento, indignazione , scandalo.

Mio padreMi venne sciorinato tutto l’elenco dei luoghi comuni borghesi sul teatro e gli attori: la vita incerta, disordinata, disagiata. E poi la corruzione, il “libero amore, come in quel paese russo che piace tanto a tuo padre”, le orge, i “paradisi artificiali della cocaina”, le attrici costrette a fare le “mantenute” per pagarsi le “toilettes”, la “débauche” come norma di vita…..(chissà perché nel vocabolario della moralità borghese le parole francesi sono inevitabili quando si tratta di definire la depravazione dei costumi).

Io ascoltavo chiedendomi oscuramente dove gli attori trovassero il tempo di studiare, provare, recitare, se erano sempre tanto impegnati a fare gli sporcaccioni.

Purtroppo non sapevo arginare con argomenti efficaci questo astioso fiume di fango che investiva oscenamente, senza tuttavia imbrattarla, la purezza delle mie aspirazioni. Stavo zitta, e odiavo. (Il risvolto patetico di tutta la storia è che i miei, e soprattutto mia madre, sono in seguito stati i miei più teneri, orgogliosi, compiaciuti ammiratori. Ma ci vuole altro per rimarginare certe ferite! Nel fondo del mio cuore non ho mai perdonato questo oltraggio alla mia innocenza.).

Il 10 giugno 1940 era scoppiata la guerra: Quella notte Muzio andò a scrivere W la Francia!  sui muri di via Nazionale.

Nell’ autunno del 1941 mi iscrissi all’Università, facoltà di Lettere e Filosofia. Cominciai a frequentare qualche corso, ma ben presto seppi che all’Università funzionava un teatro abbastanza importante e che ad ogni inizio della stagione accademica vi si svolgevano delle “audizioni” per reclutare nuovi elementi.

 Naturalmente mi presentai. Recitai l’ ultima battuta di Sonia, in Zio Vania, davanti a una giurìa prestigiosa, composta da Turi Vasile, Orazio Costa, Cesare Vico Lodovici, Enrico Fulchignoni. Mi accolsero a braccia aperte.

 
     
 
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