Edipo Re, di Sofocle. E 3!! La prima volta con Gassman nel 1955. Poi con Albertazzi nel 1969 – ma lì c’era l’incanto di recitare alla Scala, bellissime scene e costumi di Pier Luigi Pizzi; sul podio l’immenso (e creatura adorabile)
Claudio Abbado a dirigere le musiche di scena di Gabrieli. Le musiche erano a mio parere abbastanza mediocri, ma la tensione con cui Abbado seguiva la nostra recitazione, immobile, fisso, teso, partecipe, questo è
indimenticabile.
Come indimenticabile era la seconda parte della serata, con
Oedipus Rex di
Stravinskij, che appena smessi i costumi di Giocasta e struccata alla meglio, correvo a godermi ogni sera dal palco del Sovrintendente, che a quel tempo era il famoso Ghiringhelli. Quella sì che era
grande musica!
E nel 1992
Edipo Re al Teatro greco di Siracusa. Scialba regìa di Giancarlo Sepe, il cui unico guizzo inventivo fu di pretendere alle prove un pianista con una tastiera elettrica, che improvvisasse melodie o ritmi come sottofondo alle sue indicazioni registiche. Io e il mio caro, ritrovato
Giancarlo Sbragia ridevamo sotto i baffi e ci davamo di gomito come due scolari irrispettosi di fronte a un maestro un po’
ridicolo.
Povero Sbragia. Era già molto malato. Non ne parlava mai con nessuno, sopportava le fatiche delle prove con uno stoicismo e una classe
ammirevoli. Quando, durante lo spettacolo, dopo una lunga e violentissima tirata, Edipo si inginocchia accanto a Giocasta e mette la testa nel suo grembo, io gli prendevo il viso fra le mani e vedevo con pena infinita i suoi occhi smarriti, il suo pallore, sentivo il suo sudore gelido, e mi accorgevo che non ce la faceva a respirare. Allora mi inventavo, lì per lì, qualche azione muta che prolungasse il più possibile la pausa prima della mia battuta e poi la dicevo molto lentamente, per dargli il tempo di
recuperare.
Una lieve pressione della sua mano sulla mia mi diceva che aveva capito e mi
ringraziava.
Dopo Siracusa facemmo una recita a Epidauro, in Grecia. Il più bel teatro all’aperto del mondo, credo, con le sue scalinate vertiginose, la sua miracolosa acustica e, dietro, un verde mare di colline.
Danza di morte, di August Strindberg.
Che autore scomodo, sgradevole, inquinatore dell’anima. Un autore che aveva elaborato il concetto dell’
omicidio psichico, cioè della tendenza inscritta nella psiche di ognuno ad uccidere l’altro. I genitori che cercano di soffocare i figli e viceversa; moglie e marito che tentano di annullarsi reciprocamente. Strindberg scrisse una volta: “…mi impegno, come in un dovere orribile, a dire la verità: la vita è indicibilmente brutta.”
In fondo anche
Woody Allen dice in un suo film: “La vita si divide in orribile e miserrima .” Ci sarebbe poco stare allegri anche con lui. Però poco più in là Woody ti dice: “Marx è morto, Dio è morto e anch’io non mi sento troppo bene….” e con lui tutto si ridimensiona in un sorriso.
Uscivo dalle prove e poi dalle recite di
Danza di morte con l’umore a pezzi. E mi accorgo, ora, di ricordare pochissimo di quello spettacolo. E’ come se avessi voluto cancellarlo dalla mia psiche. Questo però non mi impedisce di ricordare una buona regìa di Calenda, una bella scena di Ambra Danon, un bravo Giampiero Fortebraccio e uno strepitoso Gabriele Ferzetti nella parte del marito. Un’interpretazione piena di lampi, la sua; di invenzioni, di bizzarrie, di risvolti geniali. Ma dove li andava a pescare?
La Proclemer? “Puntuale”, come scrivevano i vecchi critici dei piccoli attori di cui non sapevano che dire.
A dire la verità questo lo pensavo io. Perché tutte le critiche furono ottime anche per me.
Franco Quadri scriveva: “…La sfida impegna due grandi attori toccati dallo stato di grazia….dove Anna Proclemer ritrova spunti della signora Alving di
Spettri o della Winnie di
Giorni felici. Sarà difficile cancellare dalla memoria gli occhi implacabili che lei imprime su ogni azione d’attorno, quell’attimo di giovinezza recuperato con due mossette del Valzer dell’Alcazar, la trama delle controscene che ottiene il massimo dando il minimo….Speriamo che perduri nel tempo e in moltissime repliche la misura e la tensione di questa bella serata di teatro: una lezione di ieri che parla la lingua di oggi.”
Ecuba, di Euripide.
Una pacchia, dal punto di vista economico. Tre mesi di prove, quindi dopo pochi giorni a “paga intera”.
La scena , o perlomeno un facsimile, già montata, in un teatro di Cinecittà tutto per noi, fin dal primo giorno di prova. E anche un approssimativo ma nutrito “parco luci” e colonna sonora degli effetti e delle musiche. (Quanto sarà costato tutto ciò al Teatro di Roma? Ed essendo un Teatro di Stato, quanto sarà costato al contribuente?).
Massimo Castri mi ha civilmente odiata fin dal primo giorno. Dico “civilmente” perché non mi ha mai affrontata di petto, ma mentre provavo lo vedevo laggiù in fondo, in canottiera, che allargava le braccia (trionfo ciuffoso di peli ascellari), scuoteva la testa disgustato e un giorno lo sentii persino mormorare fra i denti: “Questa qui mi sta rovinando lo spettacolo…”
Beh, questo non era molto “civile”, diciamocelo. Ma, stranamente, non me la presi, né entrai in crisi. Dal suo punto di vista aveva ragione. Non potevo piacergli.
Lui chiedeva agli altri attori di mugugnare, bisbigliare, masticare le battute e poi risputarle ridotte in poltiglia, parlare al di sotto dell’ audibilità. Invece di parole, borborigmi. Invece di frasi, incomprensibili sequenze di suoni non identificabili.
No, io non potevo fare questo. Avevo davanti un testo classico , tradotto in versi da un poeta contemporaneo accreditato come Giovanni Raboni, di un autore, Euripide, che aveva introdotto nella massiccia, pietrosa perentorietà dei suoi predecessori (Eschilo e Sofocle) la novità di un’indagine psicologica prima di allora sconosciuta. Io avevo una scena con Agamennone , in cui Ecuba dispiega una serie di sottigliezze diplomatiche degne di Metternich.
No, non potevo borbottarle. Le dicevo. Semplicemente. Nel modo più disadorno possibile; ma dovevano arrivare, e arrivavano, all’ultima fila del loggione. Questo, Castri non lo sopportava.
Con gli altri aspetti della regìa ero rispettosa e disponibile come una scolaretta. Ero vestita di stracci, mi trascinavo in terra per ore nel fango, sotto la pioggia vera che mi cadeva in testa. Mai un lamento.
Perché io amavo questo spettacolo. Questa strada in salita contornata di macerie, col suo lampione sbilenco, era bellissima e si è installata nella mia memoria indelebilmente. Così come le livide luci, il sottofondo sonoro di tuoni (o cannonate?) e il tremolìo allarmante dei lampi temporaleschi.
Dopo Roma facemmo una piccola tournée in provincia, poche piazze. Vergognosamente poche, per uno spettacolo così importante.
Perché Ecuba non fu ripresa, la stagione successiva, per ammortizzare, almeno in parte, i costi?
I giornali titolavano : L’Ecuba della Proclemer, oppure Proclemer in Ecuba. Mi fecero decine di interviste. A Castri, questo non piacque per niente.
Non potendo assassinare la Proclemer, scelse di assassinare Ecuba.
Dio ne scampi, di Enzo Siciliano da V. Imbriani. Un adorabile pastiche, molto spiritoso, con un linguaggio volutamente bastardo, fiorentino-partenopeo , che fu una tortura imparare a memoria. In scena solo io e Claudia Giannotti, attrice bravissima e deliziosa compagna.
Rincontrai Luca Ronconi dopo tanti anni. Non l’avevo mai avuto come regista. Ardenzi l’aveva contattato un paio di volte, ma poi si era tirato indietro, spaventato dalla lunghezza degli spettacoli di Luca.
Io ricordavo il suo debutto come attore, giovanissimo, in Tre quarti di luna di Squarzina, con Gassman. Non prometteva di diventare un grande attore, confessiamolo, anzi era un pochino….scarso (del resto lui stesso oggi lo dice, con molto spirito).
Poi invece è diventato un grande e inquietante regista. Circolano su di lui molte leggende metropolitane, sulle sue crudeltà con gli attori, sulle sue esigenze a volte spietate. Io ero preoccupata di questo nostro incontro, e invece tutto si è svolto “sulle ali della canzone”.
Luca è di una mostruosa intelligenza, è molto ironico, molto spiritoso, è aperto ai suggerimenti dell’attore, non è mai permaloso (come sono quasi tutti i registi). Non è mai, benché molti dicano il contrario, impositivo.
Aveva ideato una sorta di grande pedana, un prolungamento del palcoscenico dentro la platea (eliminando alcune file di poltrone). Era di un bel parquet biondo-dorato. Pochissimi mobili, un letto di ferro, un baule, un divano.
Claudia e io ci muovevamo in questo spazio con i nostri fruscianti costumi fine 800, ed eravamo davvero “senza rete”. E se ci mancava una parola, nel mare periglioso del linguaggio Siciliano-
Imbriani chi mai avrebbe potuto soccorrerci? Le quinte, con l’inutile suggeritore, stavano venti metri dietro di noi.
Andò tutto a meraviglia. Io e Claudia ci rimandavamo le palle delle battute come in una partita di tennis d’alta classe, e il Teatro Argentina era percorso da sorrisi, risolini, vere e proprie risate, come non gli capitava da tempo. Il pubblico ci era grato, e lo dimostrava con applausi festosi e inusitati.
Anche questo spettacolo morì lì. Perché non portarlo in giro? Non costava molto. Due sole attrici. E forse la pedana poteva essere ridotta o semplificata… No, morì lì. Tanto lavoro, tanta fatica, tanto talento sprecati. Morì lì. Una vergogna, secondo me.
Preferirei di no, di Antonia Brancati. Di mia figlia, cioè, ma sarebbe forse più appropriato dire della figlia di Vitaliano Brancati.
Sì, perché il talento di Antonia per la scrittura, soprattutto per la scrittura drammaturgica, è di marca prettamente brancatiana. Quel talento per la battuta “fulminante”, che scocca come una freccia e non indugia in approssimazioni ma va dritta al bersaglio. Quella salutare mancanza di sentimentalismo, quel cinismo di fondo, quella mancanza d’illusioni, sono tutti di suo padre. Sua madre, in fondo, resta un’inguaribile romantica.
Il titolo richiama la famosa frase di Bartleby lo scrivano, lo stupefacente racconto di Herman Melville.
Io ero entusiasta della commedia. Due personaggi. Madre e figlia. E un terzo personaggio che aleggia nella storia, ma non si vede mai, il padre. E tutti a chiedere: è autobiografica? Macché. Il padre è un politico tipo Berlusconi, la figlia una rampante manager d’immagine , la madre, cioè io, una donna che dopo aver passato la vita a fare la moglie perfetta, la casalinga perfetta, la perfetta integrata in un mondo politico corrotto, pianta tutto e tutti e va a vivere come un’eremita. Nemmeno la più esile traccia di autobiografia.
La regìa di Maccarinelli avrebbe potuto essere meglio.
La Marchigiani avrebbe potuto essere meglio.
La Proclemer avrebbe potuto essere meglio.
Malgrado tutti noi, la commedia rimase una bellissima commedia ed ebbe anche un buon successo. Meriterebbe un’esecuzione più degna, prima o poi.
La luna degli attori, di Ken Ludwig.
Una farsa. Una farsa nel classico senso del termine.
L’avevo vista a New York e mi ero molto
divertita. Anche se Antonia, che aveva comprato i diritti della commedia e ne era la traduttrice, ha scritto sul programma di sala che uscendo dal teatro, a New York, io avrei detto: “Divertente, molto. Grande parte per un attore….” . E nel giugno del ’96, firmando il contratto, avevo detto
ad Ardenzi . “Certo che il ruolo di lui è molto meglio…” Ed era vero, perbacco, il grande protagonista, con in mano tutte le carte degli effetti, delle risate, del successo di simpatia era lui, era George, non era Charlotte.
E cosa accadde, invece? Che Albertazzi lo fece in modo così svogliato, approssimativo, scialbo, che tutto il successo fu mio. Fin da subito. Ricordo che al teatro di San Marino, dove debuttammo, incrociandoci nel buio in quinta, durante uno dei miei affannosi “cambiamenti a vista” (pochi secondi per cambiare tutto, dalla parrucca, al vestito, alle scarpe, al mantello), Giorgio mi sibilò fra i denti: “Un trionfo per l’Annina….” E sì, fu così, e lui non si divertì per niente.
Io invece mi divertivo pazzamente a perlustrare questo mondo per me ignoto della farsa. Avevo in questo viaggio un partner eccellente, Vittorio Viviani, strepitoso attore comico. Grazie a lui imparai in poco tempo tutti i trucchi del mestiere. Facevo e stra-facevo, anche, con l’entusiasmo dei neofiti. Avevamo insieme una lunga scena, che ogni sera diventava più lunga per le aggiunte, le gags, i lazzi, le trovate che vi apportavamo. Una sera prendemmo quattro applausi a scena aperta, uno dopo l’altro, in un delirio di risate del pubblico. Non garantisco che tutte le nostre trovate fossero di qualità eccelsa, anzi forse si eccedeva un po’, qua e là, soprattutto io, ma per me fu come un ristoratore bagno di giovinezza e di allegria.
Ne parliamo sempre con Vittorio, quando ci rincontriamo. “Ci davamo dentro un bel po’,eh?” “Come no! Però che spasso! E che successo!”. Mi è rimasto per lui un grande affetto e tantissima riconoscenza.
La professione della Signora Warren, di G.B.Shaw.
Il regista dello spettacolo, Patrick Rossi Gastaldi, scrisse sul programma: “Insieme ad Anna Proclemer, con cui ho avuto la fortuna e la gioia di lavorare, abbiamo scolpito la Signora Warren scegliendone il piglio plebeo che permette alla grande attrice di allargare i motivi comici e grotteschi, immergendoli in un realismo di sentimenti primitivi che rendono il personaggio umano e allo stesso tempo crudele.”.
Il “piglio plebeo”….è una parola ! Ma dove andare a pescarlo? Solo il dialetto, ti può aiutare.
E io ricordavo una sublime Sarah Ferrati nella Warren nel 1943, regìa di Ettore Giannini (!), con Rina Morelli (!) che faceva Vivie, la figlia. La Ferrati aveva nei precordi un’antica beceraggine fiorentina e a quella si abbeverava, d’istinto, quando la Warren smette i panni della falsa signora e si abbandona alla sua originaria verità.
Ma io? Il mio Trentino, a parte qualche yodel e un immenso amore per la montagna non mi ha trasmesso altro. E allora ricorrevo, nei momenti di furia popolaresca del personaggio, a una cadenza emiliana, che mi veniva da mia madre e dai miei tre anni vissuti nella mia amatissima Bologna.
Non era male, dopo tutto, non era male.
E i fantasiosi costumi e cappelli di Mariolina Bono, un trionfo di piume, penne, velette, colori sgargianti, mi aiutarono molto. Quando entravo al secondo atto , con un costume verde smeraldo, un immenso cappello con enormi uccelli del paradiso bluette e la mia Lulù tenuta con un guinzaglio d’oro, scoppiava quasi sempre un applauso. A me? A Mariolina Bono? A Lulù? Forse a Lulù. In scena, cani e bambini vincono sempre.
Claudia Koll era fisicamente perfetta nella parte di Vivie. Non fu una compagna facile. Piena di manie, di fissazioni. Non le si poteva rivolgere la parola, in quinta, nemmeno per dirle “buonasera”. La sarta non la poteva toccare, neanche per aggiustarle la camicetta o la cintura. E lei in compenso, appena usciva di scena, si sdraiava lunga per terra (con il costume bianco, orrore!) “Mi devo concentrare! ” disse allo scandalizzato direttore di scena che le aveva fatto notare come questo fosse contro ogni regolamento di palcoscenico.
Prima dello spettacolo, per una buona ora si “scaldava la voce” in camerino. Urla disumane, ruggiti, raschi, grida tribali che mettevano in agitazione Lulù, che a volte si lasciava sfuggire un “bau!” di protesta. Io la voce l’avrei persa in cinque minuti. Lei no. Però in scena parlava sempre un po’ tutto uguale e sottotono. Aveva il mito della Duse e un’aria sempre un po’ miracolata, che forse preludeva al misticismo tipo Madre Teresa di Calcutta che ostenta oggi.
Davide Montemurri, mio adorato amico da una vita, non era in uno dei suoi momenti migliori. Meglio lasciarlo perdere.
Mi trovavo benissimo con Virgilio Zernitz, che avevo avuto in tanti miei spettacoli, sempre bravo, perfetto, affidabile; qui faceva egregiamente la difficile parte di Sir George Croft, nobile, cinico, uomo d’affari senza scrupoli, socio della Warren nella gestione di una rete di case di tolleranza. Virgilio era qui di una tensione spietata e di una lucida eleganza assolutamente impeccabili.
Caro Virgilio. Ogni tanto mi telefona dalla sua Venezia. Lo sa che adoro la sua città . E mi manda cartoline con riproduzioni di Carpaccio.