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Finalmente una commedia brillante. Quattro giochi in una stanza, di Barillet e Gredy. Traduzione e regìa di Albertazzi. Facevo quattro personaggi diversi. Una tipica signora milanese, una hippy, una donna complessata, una ricca cafona e simpaticissima. Mi scoprii una vena comica che non credevo di possedere. Diedi a ogni personaggio un accento, più che altro una diversa “cadenza” dialettale. Avevo i tempi comici giusti, i ritmi giusti. Che scoperta emozionante!
Con me recitava mia figlia Antonia, in una delle sue rare esperienze sul palcoscenico; e, per la prima volta Gabriele Ferzetti, che in seguito è stato mio prezioso partner in tanti spettacoli. Dopo il debutto romano facemmo una lunghissima tournée molto fortunata.
I miei problemi sentimentali non erano affatto risolti, ma la presenza in Compagnia di un giovane attore, Gabriele Antonini, che aveva recitato con me anche in “Questo amore….”, me li rese più sopportabili.
Gabriele era un bellissimo ragazzo, quindici anni meno di me, non un grande attore, ma molto professionale e gradevole; aveva per me un’ammirazione sconfinata e questo mi dava molta carica, nei miei frequenti momenti di auto-insoddisfazione e di dubbi sulle mie capacità. E poi mi amava in modo totale. Amava tutto di me, il mio corpo e la mia mente bislacca, la mia allegria un po’ infantile e la mia pena. Voleva che fossi sempre “in tiro”, ben vestita, mai sciatta, la migliore di tutte. E, cosa straordinaria per un giovane attore rampante, era di una discrezione assoluta. Quando in giro vedeva un fotografo, si defilava. Per merito suo non uscì mai un
pettegolezzo su di noi. Nemmeno sui giornaletti preposti al gossip.
Naturalmente raccontai subito tutto a Giorgio che non fece una piega. Anzi sembrò in qualche modo sollevato.
Era un periodo bizzarro, quello. Nel momento in cui la nostra unione avrebbe dovuto sfasciarsi andammo a prendere possesso della casa in campagna che anni prima avevamo sognato, e che mio padre ci aveva assemblato con grande perizia e affetto. Era su una collina a Colleromano, sulla Tiberina. Era molto grande, con una bella piscina che si poteva anche riscaldare, un grande prato e, dietro, un bosco.
Potei realizzare il mio sogno di avere intorno tanti animali. Il mio asinello sardo, Birbo, appena sentiva la mia voce usciva sempre dalla sua stalla e veniva a sdraiarsi sul divano con me. Così come i miei cani che, anche loro, odiavano star fuori e mi vivevano appiccicati . Avevo anatre, caprette tibetane (un giorno che ero sola in casa, dovetti aiutarne una a partorire. Non ne sapevo niente, mi faceva anche un po’ orrore, ma me la cavai brillantemente). C’erano miriadi di pavoncelle (avevo cominciato con una coppia), due scoiattoli tailandesi, un numero imprecisato di gatti, pesci assortiti in una grande vasca nel patio ecc.
C’erano, soprattutto, gli alberi e le piante che avevo fatto piantare io. Cinque stupendi ulivi di trent’anni che andai a prendere ai Castelli Romani. Un camion per ogni ulivo, per il suo enorme pane di terra. Attecchirono meravigliosamente. E poi il grande tiglio, e la recinzione di macchia mediterranea, e le rose che si arrampicavano dappertutto. Bello.
Ma il mantenimento di una casa simile era troppo
costoso e troppo faticoso. Mi occupavo io di tutto. Giorgio si limitava a fare “le tour du propriétaire” con gli amici in visita. Ma se qualcosa si sfasciava, se veniva a mancare l’acqua o andava via la corrente, il giardiniere si licenziava, il contadino veniva sorpreso a rubare, lui faceva l’ospite imbambolato e io dovevo rimediare da sola.
Tutto l’anno facevamo, soli o insieme, tournées massacranti per raggranellare quattrini. E d’estate, quando si tornava finalmente a casa, la “coppia” che ci faceva i servizi se ne andava in vacanza…. Questo paradiso-inferno durò dieci anni.
Di quel decennio vorrei ricordare brevemente Gioconda,di D’Annunzio. Carlo Terron scrisse di me. “….Tutta l’attenzione e l’attesa erano per la Proclemer. Come chiamare quella sua altera umiltà, quella dignità nella rassegnazione, quel pudore nella sofferenza, quel non ostentato, anzi gelosamente celato orgoglio? Parola di galantuomo: mai vista e sentita recitare cosi.”
Pilato sempre, interessante testo di Albertazzi, che riuscì a mettere insieme sulla scena la Toccafondi, la Proclemer, la Brown. “Il passato, il presente, il futuro” titolò un giornale. Altre rivistacce parlavano dell’Harem di Albertazzi. No, non era sopportabile.
L’ unico spiraglio di sollievo, in quella compagnia, fu la presenza di Carlo Reali. Un amico tenero, disponibile, attento. Un pregevolissimo attore. E un cantante di tutto ripetto. Quando attaccava i suoi pezzi, con la sua splendida voce baritonale, lo spettacolo si sollevava di colpo.
Me lo ricordo anni dopo, sulla terrazza della sua casa, a Roma quando si esercitava a fare il tip-tap. Aveva messo giù un tappeto speciale e indossava scarpe particolari, con le claquettes. Come lo invidiavo! Quanto mi sarebbe piaciuto fare altrettanto…Un po’ tardi per cominciare. Poi lo vidi nel musical A qualcuno piace caldo. Ballava e cantava e recitava meglio di tutti.
Poi un testo mio, bruttino, scritto sotto lo pseudonimo Elisabeth Berger: La strega. La cosa più positiva fu la collaborazione di Valerio Zurlini, che ne curò la regìa. Valerio era un caro amico. Una persona colta, squisita, sensibile. Era spesso ospite da noi in campagna. Ricordo interminabili e affascinanti conversazioni di notte, sul prato davanti alla casa, le luci di Roma che tremolavano laggiù in fondo. Vino bianco gelato, whisky, e per me la solita vodka.
Valerio ci presentò un suo amico che si occupava anche lui, sia pure occasionalmente, di cinema: Luigi Vanzi. Era un uomo di una mostruosa e multiforme cultura. Sapeva tutto di tutto, Gigi. Ed era estroso, ludico, fantasioso e implacabile dialettico, imprevedibile. Un autentico puer aeternus, come io lo chiamavo. Diventò l’amico più caro ed amato della mia vita.
Anche lui, con la sua compagna Eleonora Corbi, erano tutte le estati ospiti da noi. Facemmo insieme un mitico viaggio negli USA, coast-to-coast, nel 1988. Quando Gigi morì, per un tumore al cervello, (che tragedia vedere la sua splendida intelligenza sgretolarsi via via col progredire del male!), la mia esistenza ne fu impoverita per sempre. Oggi Eleonora è la mia amica più cara. Parliamo raramente di Gigi. Ma l’altro giorno mi ha detto: “Quest’inverno dobbiamo farci coraggio e rivedere i filmini che abbiamo girato in America….”. Lo faremo. Ma sarà dura.
Nel 1975 debuttai al Festival di Spoleto con La signorina Margherita di Athayde, un giovane brasiliano di molto talento che poi si è perso per strada. Era un monologo massacrante per la fatica, la memoria e anche la scabrosità di certe situazioni. Ma fu un’esperienza importante, perché per la prima volta parlavo direttamente al pubblico (la Signorina Margherita è una maestrina che finge di parlare a una classe di bambini un po’ deficenti e impartisce una strampalata lezione su tutte le materie). Dovevo anche improvvisare, perché a volte il pubblico reagiva e dovevo inventarmi delle battute. A volte riuscivano bene e prendevo un applauso. Che soddisfazione!
Nel 1976 accettai una scrittura dal Piccolo Teatro di Milano per Le balcon di Jean Genet, regìa di Giorgio Strehler . Si fece per due stagioni. Io non ero felice. Il grandissimo Strehler, questa volta, fece una cosa mediocre. I rapporti fra noi furono affettuosissimi ma anodini, come al tempo del Gabbiano. E poi non mi piaceva l’aria “impiegatizia” che si respirava al Piccolo. Gli attori avevano tutti l’aria di firmare il cartellino, ogni sera. In scena poteva cascare il mondo, non se ne curavano. Io, che come “direttore artistico” delle mie Compagnie sono abituata a seguire giorno per giorno i miei spettacoli, prendevo nota mentalmente di ciò che non aveva funzionato, la sera, e poi cercavo di parlarne con i tecnici. Mi guardavano sbalorditi, come fossi una marziana. Non era un luogo per me, quello.
Lo spettacolo che doveva segnare la fine della collaborazione con Albertazzi (ripresa poi, saltuariamente, dieci anni dopo), fu Antonio e Cleopatra di Shakespeare. Fu un nobile pasticcio , dove nessuno sembrava avere le idee chiare, a cominciare dal regista Roberto Guicciardini. Fu anche registrato dalla televisione. Ci sono, qua e là, anche delle cose molto belle, ma nel complesso ciascuno sembrava andare per i fatti suoi. Giorgio eccedeva in “carmelobenismi” (Carmelo Bene era il suo idolo del momento). Io non sapevo che pesci pigliare e mi arrangiavo come potevo, scena per scena. Era uno spettacolo costosissimo; andò così così e finimmo per rimetterci un sacco di quattrini.
Nell’80 ruppi i legami con tutto e tutti e me ne andai a vivere da sola in un monocamera prestatomi da Montemurri. Una sola stanza. Non c’era cucina, nemmeno una kitchinette. Nel piccolo bagno c’era un piccolissimo frigo e sopra un fornello a gas, con una bombola. La mia chessinette, la chiamavo. Pentole e tegami appesi al muro sopra la vasca. Ma che sollievo. Per la prima volta, dopo molto tempo, mi sentii quasi felice.
Era ora che io mi affidassi a un Produttore che avesse idee precise su di me e sulla mia carriera, che mi conoscesse profondamente e, se possibile, mi volesse anche un po’ di bene. E chi meglio di Lucio Ardenzi? Eravamo stati “in freddo” per anni. Quasi non ci si salutava. Lui non mi perdonava di averlo mollato a un certo punto, per proseguire un mio discorso teatrale con Albertazzi che non prevedeva la sua presenza.
Andai, come suol dirsi, a Canossa. Gli chiesi un appuntamento e andai nel suo ufficio in via dei Gracchi. Dev’essere stata una scena da film americano anni ’30. Un capolavoro di diplomatica malafede, giocata sui toni della commedia brillante.
Intanto arrivai, io di solito puntualissima, con un leggero e ben programmato ritardo (Dovetti aspettare in un bar che si facesse l’ora giusta perché, come sempre, ero in anticipo). Mi ero messa molto elegante, un tailleur di gabardine beige, camicetta bianca con una specie di jabot, ben truccata e con tacchi altissimi, per valorizzare le gambe che accavallavo e scavallavo con apparente noncuranza.
E parlavo con l’aria falsamente disinvolta della Grande Primadonna cui è venuto il capriccio di uscire dalla solita routine e vorrebbe tentare nuove esperienze. Poteva interessare al Grande Produttore?
Lucio non era da meno. Stava al gioco con il tono garbato, distaccato e vagamente scostante del Manager che è tanto, tanto impegnato, al momento, ma in un prossimo futuro, forse, chissà, se ne potrebbe riparlare…In realtà tutti e due, amici affettuosi da una vita e complici di tante belle avventure teatrali, avevamo una gran voglia di abbracciarci, di darci una pacca sulla spalla e di dirci: “Dài, si ricomincia insieme…”. Cosa che ci guardammo bene dal dire. Mantenemmo i nostri personaggi fino alla fine dell’incontro e ci lasciammo con distaccata cordialità.
Passarono pochissimi giorni e Lucio se ne venne fuori con tre idee formidabili per me, cui ne seguirono altre, una meglio della precedente. Era proprio un Grande Produttore. Commentammo insieme, ridendo fino alle lagrime, la nostra “sceneggiata” di via dei Gracchi. “Eravamo proprio ridicoli!”- “A chi lo dici? “
I tre primi titoli erano: La lupa di Verga, La miliardaria di Shaw e Le piccole volpi della Hellman.
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