Proclemer - Albertazzi e fine della medesima
 
 

Sono stati anni ricchi, rapinosi, faticosi, esaltanti, sia dal punto di vista artistico che da quello sentimentale, privato.
Tante sfide, in palcoscenico,  con testi contemporanei che certo non ci davano, in partenza, nessuna garanzia di successo. Se pensiamo che i Teatri Stabili riccamente sovvenzionati dallo Stato, non arrischiavano , allora come ora, quasi nulla sulle novità, limitandosi a riproporre, magari con regìe prestigiose, dei testi classici.

In 14 anni la Proclemer – Albertazzi presentò, come NOVITA’: Un cappello pieno di pioggia, Requiem per una monaca,  I coccodrilli,  Lavinia fra i dannati,  I sequestrati di Altona,  Anna dei miracoli,  La governante,  La pietà di novembre.
E in più dei grandi “classici” : La figlia di Jorio,  Spettri , Santa Giovanna,  Amleto,  Maria Stuarda,  Come tu mi vuoi,  Agamennone.

La figlia di Jorio“Qual è il personaggio che ha amato di più?” – mi chiedono puntualmente nelle interviste. Dio mio, come si fa a rispondere? “I figli so’ figli!”  come scriveva Eduardo?  No, via, mi suonerebbe un po’ retorico. E allora per evitare di buttarmi giù dalla torre insieme a tutti loro, dirò (sia pure con qualche dubbio segreto): La figlia di Jorio  di  Gabriele D’Annunzio.

Intanto era in versi, in endecasillabi. E io adoro recitare in versi, dopo la stupenda “scuola” di Orazio Costa con Mirra. E poi mi piaceva questo personaggio, questa “bagascia di fratta e di bosco”,  che si faceva sbattere da tutti i mietitori, un po’ maga, un po’ strega, che nell’incontro con Aligi scopre in sé la possibilità di un amore purissimo, incontaminato, generoso, capace di sacrificio fino alla morte. “La fiamma è bella!...la fiamma è bella…”. E via al rogo, per salvare lui.

Anna e Albertazzi ne La figlia di JorioFra l’altro stava nascendo fra me e Giorgio quel sentimento che poi ci avrebbe tenuto insieme per più di vent’anni. Ancora tutto segreto, perfino quasi a noi stessi. Non potevamo mai incontrarci da soli, la Toccafondi vigilava. Allora in scena, attraverso le battute – pur rispettando rigorosamente ritmi, accenti, cesure – cercavamo di mandare avanti un nostro discorso segreto, pervaso da sotterranei lampi di passione. Ci dissero amici comuni, anni dopo, che era quasi imbarazzante assistere a quel nostro scambio appassionato. Si sentivano dei voyeurs.

Mila
Aligi, fratel mio! Dammi la mano.
Aligi
Mila, il cammino è là, poco lontano.
Mila
Dammi la mano tua, ch’io te la baci.
E’ il sorso che concedo alla mia sete.

Pare che quella “mia sete” fosse vergognosamente evidente.
Ma ciascuno degli spettacoli di quegli anni mi è prezioso, per qualche ragione.

Un cappello pieno di pioggia Di Michael Gazo. Ricordo soprattutto l’incredibile “crisi d’astinenza da morfina” del personaggio di Giorgio, che io cercavo come potevo di arginare. Alla fine dello spettacolo venne in camerino un medico. “Beh, si vede che Albertazzi ha esperienza diretta del problema…”, disse con aria saccente. Bravo, complimenti vivissimi. Giorgio non beve, da secoli non fuma, e non prende farmaci di nessun genere. Una volta mi disse: “Pensa, stavo così male che ho dovuto perfino prendere un’ aspirina!”

Requiem per una monaca Di Faulkner-Camus. Spettacolo di gran classe, diretto da Costa in uno stile di recitazione cool jazz, tutta sincopata,  tutta in levare, con una colonna di effetti sonori che era splendida. Però gli effetti erano troppi e alla prima di Firenze, alla Pergola, rischiammo lo sbertulo. Poi la parte di effetti eccedente venne tagliata e fu un successone.

Anna e Guido Rocca ne I CoccodrilliI coccodrilli di Guido Rocca. Caro, carissimo Guido. Un amico impareggiabile.  Alla Francis Scott Fitzgerald.  Whisky e nostalgia. Tennis e ragazze al tramonto. Un viso non particolarmente bello, ma un corpo stupendo. Lo vedemmo giocare a tennis con un  suo e nostro amico  (che poi sposò la figlia di Tofanelli), a Sanremo. Due creature incredibili per bellezza, grazia, e delicatezza d’animo. L’amico  morì di lì a poco in una gara motociclistica. Guido lo seguì non molto dopo per un cancro alle ossa che avevano ridotto in pochissimo tempo, mi dissero, il suo bellissimo corpo trionfante in uno scheletrino da bambino.

Lavinia fra i dannati. Su Carlo Terron ci sarebbe da scrivere un libro. Di prodigiosa intelligenza, coltissimo, arguto, cattivo, pettegolo, un epigrammista alla Oscar Wilde , un ottimo critico teatrale, un amico partecipe e attento, e nello stesso tempo infido. Capace di venderti per una battuta.

Lavinia era un bel testo, e a me piaceva recitarlo. Al Quirino di Roma, a una replica, durante il primo intervallo fui chiamata al telefono da una voce di donna singhiozzante, che disse di essere la mia tata, e fra i singulti mi annunciava:
“Signora, la pupa è morta…è morta!..”. La pupa era mia figlia Antonia che quel giorno era tornata al suo collegio di Firenze, Poggio ImperialeSgomento, incredulità, la voce non mi pareva quella, ma insomma… Telefonammo a Firenze e mi dissero che la bambina dormiva. “Non importa, mandatemela al telefono.” Arrivò Antonia tutta assonnata. Va bene, va bene, ti volevo salutare."  Tornai in scena per il secondo atto un po’ scossa, ma mi sembrava di star bene.
L’atto cominciava con me, seduta su una poltrona, che dicevo una battuta. Mi rispondeva Giorgio, mio cognato, prete con tanto di tonaca nera. A questo punto, nel rispondergli, io mi alzavo di scatto. Alzarmi e piombare a terra come un ciocco, svenuta, fu tutt’uno. Mi hanno raccontato, dopo, che Giorgio si slanciò verso di me, con tutta la sua veste da prete, gridando: “Amore!...” E poi gridò: “Sipario!”.
Venne un medico e disse che non avevo niente di grave, ma che lo choc di quella telefonata mi aveva messo per un momento fuori fase. Nel frattempo Giorgio era uscito fuori del sipario, e aveva raccontato al pubblico quello che mi era successo. Quando ripresi lo spettacolo  l‘applauso fu talmente fragoroso che mi solleticò per un attimo l’idea di svenire ogni sera. Invece non l’ho mai più fatto. L’ha fatto, nella Stuarda, Valentina Cortese. “Troppe tuberose, in camerino. Quel profumo…” Va bè. Passiamogliela per buona.

Anna e Albertazzi ne I sequestrati di AltonaI sequestrati di Altona di J.P.Sartre. Bellissime le scene di Piero Zuffi. Bravi tutti gli attori; Glauco Mauri, Franca Nuti, Aldo Silvani.
L’ immagine di Glauco Mauri è da sempre nella mia vita teatrale. Dall’avventura del Sud America alla Figlia di Jorio;  prima il Primo Mietitore, poi il padre di Aligi, Lazaro di Roio. Poi in Lavinia fra i dannati, I Sequestrati di Altona.
Sempre intenso, concentrato, irreprensibile. Sempre grande. Poi le nostre strade si sono divise.
Ma io non dimenticherò mai la sua tenera follìa, la sua totale dedizione al teatro, il suo candido dispregio delle convenzioni borghesi. Glauco che non aveva una casa. Glauco che passeggiava fino all’alba sul lungomare adriatico parlando da solo. Glauco che viveva con le valigie in mano e che ha sempre spregiato la facile notorietà e i successi a buon mercato. Glauco. Un personaggio che è fuori da questo nostro tempo tristemente mercantile. Glauco. Un artista.
Albertazzi  era impressionante nell’isterismo del nazista pazzo; la sua camminata di traverso, a granchio, le sue grida strozzate, (che gli procurarono un polipo alle corde vocali di cui dovette essere operato) ne fecero un evento. Io ero…così così. Vagamente a disagio nella parte della diva bella e stupida, mi feci notare, grazie al vestito di lamé d’oro che sembrava incollato al corpo, per un notevole decolté che arrivava alla vita e per un fondoschiena alla Penelope Cruz.

Anna dei miracoli di William Gibson. Un’altra bella regìa di Luigi Squarzina. Eppure a prima vista sembrava un testo non troppo adatto al suo pragmatismo di liberal  disincantato. Troppo sentimentale, troppo “spirituale”, per lui. Fece un ottimo lavoro, invece. Anna con Ottavia Piccolo
Un personaggio, questa Anne Sullivan, che ho amato con tutto il cuore e grazie al quale sono stata molto amata dal pubblico, sia per la versione teatrale che per quella televisiva. Incontro ancora oggi gente, soprattutto quando vado in provincia, che me ne parla con ammirazione e nostalgia. “Ma perché. in televisione, non si fanno più quelle belle commedie lì ? ” – mi chiedono.
Quanto a me,  io avrò sempre un grandissimo affetto per le mie due bambine. In teatro la straordinaria Ottavia Piccolo, che allora aveva 11 anni e ora è una pregevolissima primattrice, e che incontro spesso con gioia. In televisione Cinzia De Carolis, che aveva solo cinque anni ed era stupefacente, per originalità e verità, nella parte della piccola cieca e sordomuta. Purtroppo ora l’ho persa un po’ di vista.

La governante. Scritta da Brancati nel 1952, proibita dalla censura per anni. Riuscii a rappresentarla solo nel 1965. Brancati non c’era più da 11 anni.
L’idea della trama nacque da una lettera che io avevo scritto a Brancati nel febbraio del 1948 e che riportava, in forma di dialogo, un colloquio che avevo avuto con la governante di nostra figlia, una puericultrice diplomata alla Scuola di Trento. Una donna severa, estremamente riservata e casta, quasi una monaca, che velatamente accusava la nostra domestica di un atteggiamento un po’ “morboso” nei propri confronti.
La lettera è riportata per intero in Lettere da un matrimonio, pubblicato da Giunti, sull’epistolario fra me e Brancati.
Brancati mi rispose a stretto giro di posta: “Annina cara, il dialogo che mi hai trascritto, e che io conservo come il testo di una scena di commedia, è veramente incredibile. Ma come? La T. nasconde un diavolo così nero? Avevamo l’inferno in casa e non ne sapevamo nulla! Sono pieno di trepidazione. Dove ho lasciato la mia adorata Pecorella? Che venga presto da me o che io corra da lei!”….

La governanteNe La Governante, che Brancati scrisse quattro anni più tardi, c’è una scena che ricalca quasi parola per parola il dialogo della mia lettera. Nella realtà l’episodio non aveva avuto seguito. Nella fantasia di B.,invece, per quattro anni rimase in incubazione mischiandosi ad altri umori, motivi, temi a lui cari.

Io spiai la nascita di questa Governante con molta trepidazione e affetto. Non era solo una commedia che veniva alla luce. Era una dichiarazione d’amore per me attrice. Mi sentivo finalmente accettata. Dopo tanti anni di recriminazioni sottaciute  e di ingiustificate paure il mio lavoro veniva riconosciuto da B. importante e degno di ammirazione. Era una grande vittoria, per me. Una vittoria dolcissima, che mi riempiva di gratitudine.

Brancati lesse la commedia a Orazio Costa. Orazio, ottimo uomo di teatro, colto, intelligente e raffinato, era però troppo chiuso nella sua corazza di religioso e quasi fanatico moralismo per apprezzare la dialettica etica squisitamente “protestante” di un testo come quello.

Presentammo comunque la commedia alla commissione di censura che la bollò immediatamente con un marchio d’infamia e ne vietò la rappresentazione. Ne fummo costernati. Brancati scrisse un bellissimo pamphlet dal titolo: Ritorno alla censura. Un saggio voltairiano sull’ottusità e la pericolosità di certi nostri uomini di potere. Il suo editore, Bompiani, si rifiutò di pubblicarlo. Fu pubblicato da Laterza insieme al testo della commedia.

Era l’aprile del 1952. Io riuscii a portare per la prima volta  in scena La Governante  solo il gennaio del 1965, al Teatro Duse di Genova.

Affidammo la regìa a Giuseppe Patroni Griffi. Era la sua prima regìa, in teatro. Però ci parve che un uomo di lettere, scrittore, un raffinato intellettuale come lui, fosse la persona più adatta per il testo di un letterato come Brancati.

Non ci sbagliammo. Peppino fece un lavoro squisito, illuministico, scevro di quegli insopportabili “naturalismi dialettali” che imperversarono, purtroppo, in talune edizioni successive.

E’ anche merito suo se il grande Gianrico Tedeschi, milanese, fu così genialmente credibile nel ruolo del vecchio Platanìa, catanese doc.

Di me Carlo Terron scrisse, nella sua critica  sul Corriere Lombardo del Gennaio 1965:

“….Anna Proclemer vive il suo personaggio con l’anima stretta fra i denti, in un’esaltazione compressa e bruciante, un gelo trasformato in fiamme; e di una nera disperazione fa un bianco mistero….”.

La pietà di novembre. Ricordo quando Franco Brusati venne a Napoli, dove io ero in tournée, per leggermi la commedia che aveva appena finito. Arrivò troppo presto, per la sua solita frenesia. Io stavo all’Excelsior, ed ero ancora a letto. Insisté per salire. Si sedette sul letto e cominciò a leggere, benissimo, come sapeva leggere lui. Lo ascoltavo rapita. Alla fine, al lungo monologo di Oswald prima di sparare a Kennedy, scoppiai in singhiozzi. Franco mi si distese addosso, piangendo anche lui. Fu un lungo momento indimenticabile. Uno dei più emozionanti “amplessi” della mia vita.

Spettri di Ibsen. Per la prima volta facevo la madre di Albertazzi, mio coetaneo, anche se allora si calava un bel po’ di anni. Essere sua madre in scena non mi imbarazzava. Come anni prima non mi aveva imbarazzato fare la madre di Gassman. Mi è sempre stato più facile, in scena, invecchiarmi piuttosto che ringiovanirmi.
E poi mi piaceva questa Signora Alving. Una donna forte, “libera pensatrice”, costretta dalle pesanti convenzioni del suo tempo a mostrarsi debole, sottomessa e perfino vile, fino al tragico scioglimento finale.

Santa GiovannaSanta Giovanna di G.B.Shaw. Erano anni che desideravo interpretarla. Quando seppi che pensava di farla Valeria Morioni, chiesi espressamente ad Ardenzi di produrre lo spettacolo per me. Lui era restìo. Non perché il testo non gli piacesse, ma perché l’allestimento era molto costoso. Scenografia e distribuzione complicate, e una caterva di personaggi. Alla fine si arrese alle mie insistenze (avevo chiamato a raccolta – e non lo faccio quasi mai – tutte le mie più subdole arti di seduttrice) e lo spettacolo si fece. Fu un bel successo.
Merito anche della regìa di Mario Ferrero. Avevo lavorato benissimo con lui anche in Spettri, e in vari spettacoli del Piccolo Teatro di Roma di Costa di cui era il primo assistente alla regìa.

Ferrero ha sempre avuto per me una sorta di tenerezza, di indulgenza, di tolleranza ben in contrasto con la sua indole di fiorentinaccio irascibile al limite dell’isterìa. Io gli ero molto grata di questo; con lui mi sentivo a mio agio e mi abbandonavo al piacere di sentirmi benvoluta e gradita. Avevamo anche lo stesso senso del comico, e ricordo delle risate irrefrenabili che ci accomunavano quando in scena succedeva qualcosa di buffo. Una volta, a una prova con Costa, non ricordo cosa scatenò il nostro fou-rire, ma ricordo che Orazio ne fu così scandalizzato che voleva cacciarci dal teatro.
Io mi divertivo come una pazza nella scena del processo, quando  chiedono a Giovanna di abiurare e dapprima sembra che lei acconsenta, poi si ribella e accetta il rogo. (E due! Sembra un mio destino che io debba morire arrostita.).

Portammo lo spettacolo in giro per parecchie piazze estive, prima della stagione invernale. Ricordo che a Gardone Riviera, nel teatro voluto da D’Annunzio nel suo Vittoriale, l’allora presidente del Vittoriale, Umberto Zanatta, mi fece portare in scena, agli applausi,  un albero spoglio ricoperto di orchidee viola. Forse era un po’ innamorato di me. Sedeva in prima fila a ogni spettacolo e mi divorava con gli occhi.
Tentò di convincermi ad accettare in dono una Jaguar (“Non sono tranquillo, quando la vedo partire con quella sua Alfa Sport!). Non c’era niente, fra noi. Ci davamo del lei. Mai niente, neppure un piccolo bacio. Gli dissi che non potevo accettare un dono così importante, come potevo sdebitarmi? Mi disse che bastava gli dicessi “Grazie” e me ne andassi col Jaguar. Non lo feci, naturalmente. Ero totalmente presa da Albertazzi, che stava in Africa a girare un film e non vedevo l’ora di raggiungerlo.

Quando raccontai questa storia a una mia cara amica, felicemente cinica, mi disse: ”Sei una bella cretina. Ti prendevi il Jaguar, dicevi “grazie” e te ne andavi. Non era questo che lui ti aveva chiesto?”.

Amleto di W.Shakespeare. E rièccoci con questa noiosa della regina Gertrude. L’avevo fatta con Gassman, poi con Albertazzi al Teatro Romano di Verona (spettacolo bruttino, convenzionale, regìa di un mediocrissimo inglese, Frank Hauser). E  ora terza volta, terza traduzione da imparare. E’ difficilissimo mandare a memoria battute simili.Amleto di Zeffirelli

Comunque lo spettacolo di Zeffirelli era stupendo. Scenografia, costumi, luci di incredibile bellezza. Si faceva per due stagioni. Io mi annoiavo un po’. Una notte che non riuscivo a dormire ebbi un’idea folgorante che raccontai a Franco e che lui, da qual sapiente uomo di teatro che è apprezzò moltissimo e realizzò con grande acume.

Dopo la scena del closet con Amleto, quando il figlio le mostra i ritratti dei suoi due mariti e c’è questo scontro madre-figlio intriso di violenza e insieme di carnalità, e Amleto uccide Polonio ed è costretto a partire per l’Inghilterra ecc., passano alcuni mesi e Gertrude la si rivede con Ofelia ormai pazza.

La battuta di Ofelia suona: Where is the beauty of the Queen of Denmark? Che tutti traducono: “Dov’è la bella regina di Danimarca?”. In realtà si potrebbe intendere, forse più esattamente :”Dov’è la bellezza della regina di Danimarca?” – come dire: dov’è finita la bellezza ecc.?
L’idea che trasmisi a Franco era questa: Gertrude l’abbiamo vista finora in tutto il carnale splendore della sua femminilità. Sempre truccatissima. Vestita d’oro come un cioccolatino, con una scollatura che mi arrivava alla vita e lasciava scoperto il seno, tanto che quando il Corriere della Sera pubblicò la fotografia annerirono col pennarello quei due rigonfi a quel tempo scandalosi. Oppure vestita di un sensualissimo rosso-viola, oppure avvolta in una spettacolosa vestaglia rosa- grigio perla. I lunghi e sensuali capelli rosso fiamma sciolti sulle spalle.

Ecco. In quella mia notte insonne immaginai che l’orrore di quella scena col figlio l’ avesse fatta imbiancare di colpo. In una notte. Può succedere, per uno spavento o un grande dolore. La ritroviamo di colpo vecchia, canuta, la faccia devastata dalle lagrime.

Franco colse l’idea al balzo e montò la scena in modo magistrale. Mi faceva entrare lungo la ribalta, di spalle al pubblico.  Indossavo un lungo vestito nero di breitschwantz, senza un ornamento che non fosse la lucida bellezza del tessuto di pelliccia. In testa una piccola parrucca di capelli bianchi, raccolti in forma molto castigata. Il pubblico, vedendomi di spalle, non mi riconosceva.
Ofelia veniva verso di me dal fondo scena, tendeva le mani verso il mio viso e diceva la sua battuta: “Dov’è la bellezza della Regina di Danimarca?” A questo punto io mi voltavo in silenzio verso il pubblico, col volto completamento struccato, via il rossetto, via il fard, le occhiaie annerite, gli occhi pieni di lagrime. Per il pubblico era uno choc. Si sentiva, materialmente, un sospiro trattenuto.
Quando portammo Amleto a Londra , all’Old Vic, teatro di Laurence Olivier, una sera che eravamo a cena insieme,  lui  mi disse:” Ma lo sai che in tanti anni, su Amleto ho pensato e fatto di tutto, ma quest’ idea di far invecchiare la Regina di colpo non mi era mai venuta. E’ bellissima. Te l’invidio.” Dio, che soddisfazione, per me! Feci la ruota come un tacchino.

Maria Stuarda di F.Schiller. Bello spettacolo, bella regìa del mio amato Squarzina. Ma quello che mi è rimasto più nel cuore è il mio rapporto con quella splendida attrice e dolcissima donna che è stata Lilla Brignone.
Ci eravamo conosciute quasi vent’anni prima, per il Gabbiano diretto da Strehler al Piccolo di Milano. All’inizio mi aveva guardato in cagnesco. Pensava di fare lei, Nina, e invece Paolo Grassi, senza dirle niente, aveva scritturato me. Dapprima Lilla pensò che io avessi brigato per avere la parte. Poi si rese conto che io non c’entravo, e diventammo amiche.
Lei, in compenso, fece in quel Gabbiano una stupenda Arcadina, la madre di Costantino. Personaggio che io feci moltissimi anni dopo in una bella edizione televisiva diretta da Orazio Costa.

Lilla Brignone in Maria StuardaAbitavamo nello stesso albergo, a Milano. Lei a quel tempo era legata a Gianni Santuccio, affascinante quanto inaffidabile partner. A volte Lilla mi telefonava di notte, verso le tre, (ma io sono una nottambula e non dormo prima dell’alba) e piagnucolava: “Annina, Gianni è uscito per andare chissà dove….Puoi venire un momento?”. Certo che andavo. E la trovavo furibonda e in lagrime. “Che dici? Gli vado dietro?” “Ma sei matta…” E riuscivo a calmarla. Una volta si addormentò sulla mia spalla. Ormai era mattina, non sapevo come fare per tornare in camera mia, senza svegliarla, e senza provocare infiniti pettegolezzi negli inservienti dell’albergo.
Quando, anni dopo, ho avuto io delle difficoltà amorose, lei mi è stata vicina come la più tenera delle sorelle.
Nella Stuarda ci incontravamo in scena una sola volta. Era una scena molto violenta, in cui ci insultavamo a sangue. Nacque la “leggenda metropolitana”, fomentata da Enrico Lucherini, il nostro press-agent, che la Proclemer e la Brignone si odiavano ed erano anche venute alle mani. Chissà, forse pensava di attirare più pubblico. Ma non credo che fosse per questo trucchetto che lo spettacolo registrò, per due stagioni consecutive, una serie di esauriti. La verità è che eravamo brave. Due bravissime tigri.

Come tu mi vuoi di L.Pirandello e Agamennone di V. Alfieri. In questi due spettacoli c’era, tra gli altri, Franco Graziosi.
Nella Santa Giovanna non lo ricordo benissimo. Ma a quel tempo ero travolta dalla difficoltà del mio personaggio e dai casini della mia vita privata. Nel Come tu mi vuoi, invece, e nell’Agamennone, ricordo, oltre alla sua bravura come attore, la sua bella tempra di “compagno di strada” nell’affascinante avventura moscovita e poi altrove nell’URSS. Intelligente, acuto osservatore, spiritoso e sornione. Una delizia.

Franco è uno splendido attore. Io gli ho sempre rimproverato la sua eccessiva dedizione a Strehler (che lui peraltro imita stupendamente! Mi fa morire dal ridere). Ma forse la mia è una forma di contorta gelosia. Forse avrei voluto che fosse più libero per me, per noi, per il nostro gruppo.
Un’altra cosa che mi lega a Franco è il suo sviscerato amore per la Poesia.

Anna con Antonia nella tourneè russaCome tu mi vuoi e Agamennone li ricordo soprattutto per la tournée che con questi due spettacoli facemmo nel paesi dell’Est: Mosca, Leningrado (tornata ora San Pietroburgo) , Bucarest, Belgrado. Il pubblico russo ti straziava il cuore per quanto era partecipe, attento, appassionato; pronto alla lagrima e al riso, riconoscente per quello che gli davi.
Quando, alla fine dell’Agamennone, ancora vestita da perfida Clitennestra, in ribalta io mi sfilavo i coturni, mi accucciavo per terra come una povera contadina e con tono dimesso gli recitavo, in russo, tutta la Lettera di Tatiana di Pushkin, la commozione del pubblico era così tangibile che contagiava anche me. Insomma era un bel  Festival della Lagrima.
L’ultimo giorno, a Mosca, nella piazza davanti al Teatro Malij dove tenevamo le rappresentazioni, un giovane  mi si mise di fronte, mi fece un grande segno di croce e mi sussurrò con ardore trattenuto: “Torna!”.
Era l’Aprile del 1968.

Trascrivo da: “Diario di Anna Proclemer” dal sito ufficiale di Albertazzi:

Trieste  -  Maggio 1968
    “Passeggiato per ore stanotte con Giorgio lungo le banchine del porto. Aria di maggio tiepida, profumo di mare. Parlato solo di teatro (di noi si parla poco, da molto tempo). E’ scontento, inquieto, irrequieto.

Eppure il giro in Russia, Romania ecc. è stato trionfale. Ma lui certo non si divertiva (e lo capisco!) con quella piccola parte del Come tu mi vuoi. E questo Agamennone l’ha sempre odiato . Alfieri è troppo pietroso, troppo definito, per lui che è il Re dell’Ambiguità. Lascia poco spazio al suo bisogno di reinventare ogni sera il testo dal di dentro, di far lievitare i suoi umori personali nelle pieghe di ciò che l’autore ha lasciato inespresso.

Insomma è in crisi. C’è troppa carne, secondo me, al fuoco della sua immaginazione, delle sue velleità, delle sue esperienze….

Dai nostri discorsi lungo il mare mi pare di capire che la Ditta Proclemer-Albertazzi, così come è stata per anni, è defunta. Forse è giusto che sia così. Anch’io ho bisogno di provare a me stessa chi sono e cosa valgo da sola.”

Sì era giusto, certo. Ma questa consapevolezza non mi risparmiava, nel fondo del mio cuore, un certo sapore di amaro e di rimpianto.

 
 
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