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Mi sposai il 22 luglio del ’46. In settembre mi accorsi di essere incinta.
Non esultai, confesso.
Avrei preferito aspettare un po’. Accantonai per quella stagione ogni progetto teatrale ma mi misi a fare molto doppiaggio. L’indipendenza economica è sempre stata per me una questione vitale. Non concepivo l’idea di “farmi mantenere”, ora che ero sposata. Ed anzi, mi era dolce contribuire col mio guadagno alle spese comuni. Volevo anche mettermi in condizione di avere un po’ di soldi per pagarmi prima una balia, e poi una governante, quando il figlio fosse nato.
Doppiai, fra le altre, Barbara Stanwich, e la Garbo in Grand Hotel e Anna Karenina. Direttore del doppiaggio il grande Ettore Giannini, che curava ogni intonazione meglio che a teatro, non certo con la cialtronesca fretta di oggi. Negli ultimi mesi di gravidanza mi offrirono di doppiare Yvonne Sanson in un film con Nazzari, e poiché feci notare che ormai il parto era imminente mi affidarono tre turni al giorno, sperando che ce la facessi a finire. A quel tempo il turno era di cinque ore. Per più di una settimana mi feci 15 ore di lavoro al giorno, in piedi, sempre col terrore di partorire in sala di doppiaggio! Lo evitai di stretta misura. Il film terminò il 4 maggio e il 6 nasceva Antonia.
A settembre ripresi il mio lavoro in teatro. Feci, fra settembre e dicembre del 1947, sei commedie. Un viaggio per Venezia, Come le foglie (di Giocosa). Il labirinto (di Sergio Pugliese), Marito e moglie, col grande Randone, (di Ugo Betti), I disonesti, sempre con Randone, (di Gerolamo Rovetta), N.N. di Leopoldo Trieste. A maggio del 1948 andai al Teatro Greco di Siracusa con Coefore e Eumenidi.
Ricopio dal mio: Lettere da un matrimonio (un mio epistolario con Brancati pubblicato prima da Rizzoli , e nel 1995 da Giunti):
“Lavoravo moltissimo e troppo poco. Per non avere l’aria di fare l’attrice “a tempo pieno”, come Brancati temeva, accettavo impegni relativamente brevi. Ma era un modo abbastanza ipocrita di risolvere il problema delle mie assenze da casa. Finivo per allontanarmi spesso, ma non abbastanza per togliermi di dosso quell’aria da “dilettante di lusso” che certo non giovava a una mia solida affermazione professionale. Nel tentativo di tenere un piede in due staffe finivo per scontentare tutti, me per prima. E’ certo che le mie assenze turbavano profondamente B. La solitudine lo gettava in un misto di angoscia, di astenia, di acuta depressione cui fa cenno solo di sfuggita nelle sue lettere, ma che si legge chiaramente fra riga e riga.
E io? Io mi barcamenavo. Accoglievo con apparente dolcezza ma con sostanziale indifferenza le sue preoccupazioni e i suoi timori. Saperlo infelice mi addolorava profondamente. Ma era dolore per lui o per il senso di colpa che me ne derivava?
Ricordo un pomeriggio milanese. Una giornata d’inverno, grigia; una pioggia leggera. Mi fermai in mezzo a piazza della Scala, sotto l’ombrello, la Ninaal mio fianco bagnata e festosa. L’odore del Nord, le luci smorzate, il suono di quella città civile e amatissima, il pensiero del teatro che mi aspettava, del lavoro che amavo, mi invasero di un così forte senso di felicità da sentirmene stordita. Durò un attimo. Ripiombai subito, ricordo, nel dedalo delle mie preoccupazioni per B. rimasto solo a Roma, e paragonai il mio stato di un attimo prima a quello che doveva essere il suo. La diversità dei nostri sentimenti mi sgomentò. Ciò che per lui era solitudine per me era libertà. Potevo fingere anche con me stessa che non fosse così, potevo vergognarmene o dolermene. La realtà rimaneva quella.” |
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