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L’anno dopo ero “prima donna” nella Compagnia di Anton Giulio Bragaglia.
A quel tempo la sua era una Compagnia di punta. Non brillava per eccessiva raffinatezza nella produzione degli spettacoli, è vero. I soldi erano pochi e lui faceva letteralmente miracoli con un magazzino pieno di vecchie scene ridipinte e riaggiustate mille volte e con bauli di vecchi costumi, sempre gli stessi, che cambiavano faccia ad ogni spettacolo. Ma la sua grande forza era il repertorio.
Dal tempo del suo vecchio Teatro degli Indipendenti che aveva lanciato in Italia il Futurismo, il Dadaismo, l’ Astrattismo alla Cordon Graig, Bragaglia fu un inesauribile scopritore di testi nuovi italiani e stranieri. Piccola città fu lui a rappresentarla per la prima volta. E così quasi tutto O’Neill, e il Teatro Giapponese e i classici del ‘500 italiano, e la riscoperta del repertorio italiano ottocentesco, ( Carlo Bertolazzi, C.A.Traversi ecc.).
C’era la guerra e gli autori inglesi e americani non si potevano rappresentare. Ebbene, lui riusciva a far passare tutti per irlandesi! Se non irlandesi veri e propri erano “oriundi”, per lui. Al Ministero facevano finta di credergli e rilasciavano i permessi di rappresentazione.
Era il 1943 quando incontrai Bragaglia. L’inverno precedente avevo debuttato al Teatro dell’ Università con Minnie la Candida di Bontempelli. Non mi aveva mai sentita recitare, aveva solo letto e sentito parlare di me.
Mi chiamò e mi ricevette nel suo sgabuzzino al Teatro delle Arti, scarnificandosi le unghie a sangue con una lametta Gillette, come fece tutta la vita fino a non avere più unghie. Sul tavolo teneva un blocchetto di legno, come un cuscinetto di per timbri, ricoperto per metà di velluto e per l’ altra metà di carta vetrata, e vi passava sopra due dita, contemporaneamente, per provare il gusto di queste sensazioni contrastanti.
Era sepolto sotto panciotti gialli quadrettati, ne portava due o tre e perfino due pantaloni uno sull’ altro, avvolto in un paio di sciarpe e con la lobbia in testa. Era pallido, magro,con la bocca sottile, gli occhi arguti, i baffetti sottilissimi e ironici. Parlava romanesco e infiorava le frasi di parolacce che facevano sussultare mia madre (che a quel tempo mi accompagnava ovunque), ma che io compresi non avevano niente di osceno ed erano usate solo per dare vigore al discorso, con la stessa purezza poetica con cui le usava il Belli.
Mi squadrò con aria divertita e sfottente, mi diede subito del tu e mi fece una straordinaria proposta: scritturarmi per l’ autunno successivo con ruoli di prima attrice a turno con Neda Naldi. Metà repertorio io, metà lei. Adesso mi chiedo: perché fece questo? Non mi aveva mai sentita recitare. Non gli passò nemmeno per la mente di farmi un audizione. Non aveva mire, diciamo, personali. Mi trattò sempre con l’affetto brusco, schivo e sincero che potrebbe aver avuto un mio zio.
Dirò di più: in compagnia aveva una sua amica. Non commise mai un’ingiustizia a suo favore e ai miei danni. Mai. La sua imparzialità era assoluta. Perché mi offrì quella possibilità? Fiuto, forse, intuizione, non so. La proposta era comunque rischiosa, per me. Dieci, dodici testi in repertorio. Tournée faticosissima, parti troppo grosse per la mia totale inesperienza. Si trattava in un anno di farsi le ossa o di rovinarsi per sempre. Corsi il rischio. Quell’anno folle mi valse dieci anni in una Compagnia normale.
Come regista Bragaglia si dedicava più che altro alla messa in scena... qualche trovata scenografica, un’idea generale dello spettacolo, qualche effetto di luce spesso un po’ ovvio ma sempre di grande efficacia. Della recitazione si curava poco.
“L’ attori so’ come li facioli -diceva- Se còceno da sé…” Quindi lasciava fare, limitandosi a qualche osservazione di carattere generale, sempre illuminante però, sempre concreta e indiscutibile. Durante le prove stava in platea, verso il fondo, col cappello e sprofondato nelle sue sciarpe. Ogni tanto mi gridava: “Nun te sento”….Nun te sentoooo!...Ch’hai detto? Fija mia, me fai la miniatura! Me fai l’ acquerello!...Er teatro è ‘n cartellone da a pubblicità. Co tanti colori, belli vivaci. Sinnò la gente nun te vede, hai capito?”
Io soffrivo. Stringevo i pugni e cercavo di cacciare fuori la mia inespertissima voce. Una volta mi insultò: “A pappa molla! Ce l’ hai o nun ce l’hai un po’ de temperamento? Me pari ‘na minestra de jeri nun riscaldata….Stringi le cosce! Stringi le chiappe! Forza! Forza!”
Io per un anno strinsi tutti i muscoli che possedevo. La sera andavo a letto a pezzi, tutta dolorante. (Ci misi poi alcuni anni a scoprire che il “temperamento” è un'altra cosa e che proprio soltanto nella souplesse muscolare e nella tensione nervosa sta il segreto della violenza e dell’ intensità).
Fu un anno terribile e splendido, da uscirne con le ossa rotte. Io, le ossa me le feci. Di questo sarò eternamente grata a Bragaglia; il Maestro, come l’ ho sempre chiamato, anche dopo anni, dandogli sempre del lei. “Ciao, pallidona”, mi diceva incontrandomi.
Non so se abbia mai saputo quanta gratitudine e affetto ho sempre avuto per lui.
E nel 1941, proprio al Teatro dell’Università, conobbi Vitaliano Brancati.
Vi si rappresentava un suo atto unico, Le trombe di’ Eustachio. Di quel nostro incontro lui poi scrisse magistralmente, molti anni dopo, nel primo capitolo di Paolo il caldo. Io avevo letto, di nascosto dai miei che lo consideravano osceno, il suo Don Giovanni in Sicilia. Fui immediatamente lusingata e compiaciuta dell’attenzione che questo scrittore così importante mi dedicava. Si toglieva sempre il cappello per salutarmi, mi chiamava Signorina e mi riaccompagnava a casa col tram. Mi parlava come ad una sua pari e ascoltava con interesse (e, credo, con tenera ironia) i miei sproloqui intellettualistici.
Poi di colpo , nel gennaio 1942, mi arrivò una sua lettera d’amore, degna di quel grande scrittore che era. Mi fece piacere. Le donne sono sempre civette, e la conquista le esalta. Però ne fui anche imbarazzata. Io non ero innamorata di lui. E non per la sua età. 16 anni di differenza non sono poi granché. Ma ero troppo presa dal teatro, che avevo appena cominciato a fare. Non sapendo come cavarmela gli scrissi una lettera stupidissima in cui dicevo che mi stavo innamorando di un altro. Non era vero.
Cioè era vero che avevo un grande amore da cui non volevo venire distolta, ma questo amore si chiamava TEATRO.
Lui ci rimase malissimo. Poi la guerra ci divise. |
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